Collezioni d’Arte

il luogo dove l’emozione si coniuga con la ragione, dove si parlano i molti linguaggi con i quali si esprime attualmente il mercato: antico e moderno, le arti maggiori, quelle applicate e decorative.

Collezionare, desiderio senza tempo

Un linguaggio naturale connaturato al collezionismo internazionale – di antica tradizione – ai collezionisti in nuce, agli intellettuali curiosi o addirittura a chi semplicemente sia attratto dal fascino di un pezzo “diverso” in grado di personalizzare anche un arredamento minimalista.

Perchè collezionare opere d'arte?

Colligere, verbo latino. Significato, legare insieme, collegare armonicamente, incatenare. È da colligere che derivano le parole collezione, collezionista, collezionismo. Questi termini divengono quindi il traslato di un’azione dinamica manifestata da un’energia intima. Questa forza è il desiderio di tenere insieme più cose disparate oggetto di desiderio. Maurice Reims scriveva che una persona desiderata, che si desidera possedere, viene definita spesso “oggetto del desiderio”. Oggetto. E domandava a se stesso se fosse il possesso dell’ “oggetto” quindi, per antonomasia, il fine del desiderio, la passione unica, l’unico scopo. Ma la passione che muove il collezionista ha spesso motivazioni ben più complesse di quanto appaia.

La storia delle collezioni d'arte

Il collezionismo del passato vedeva primi attori quasi essenzialmente i principi, l’alta nobiltà, le corti papaline e il clero, e solo più tardi e in modo più defilato una nascente borghesia fatta soprattutto di mercanti e banchieri; l’attenzione era rivolta per lo più ad artisti del proprio tempo, e a loro veniva accordata anche protezione in senso lato, in una commistione stretta tra collezionismo e mecenatismo. E’ tra il Sei e il Settecento che la pulsione ad acquistare opere d’arte mostra segni notevoli di cambiamento. Innanzi tutto si concretizza un mutamento essenziale nelle botteghe degli artisti più famosi che si strutturano non solo per produrre manufatti artistici, ma anche per supportare con le loro conoscenze il desiderio di acquisto e le scelte dei loro stessi committenti. Nasce quindi la figura nuova dell’artista-mercante con funzioni d’esperto consigliere e non solo di creatore. A questo, soprattutto in epoca illuminista e nel Settecento in generale, si affianca una nuova figura di “addetto ai lavori”, quella del conoscitore “dilettante”, come esso stesso amava definirsi, che oltre a collezionare per se stesso, è in grado, per cultura e posizione sociale, di consigliare, suggerire e in certi casi addirittura formare quelle collezioni che un secolo dopo diverranno il nucleo fondamentale dei moderni musei europei. Emblematica in questo fu la figura di Francesco Algarotti che, a partire del 1742, provvide non solo ad arricchire la pinacoteca di Federico Augusto II, principe elettore di Sassonia e re di Polonia, ma si spinse ben più in là, studiandone l’allestimento con criteri espositivi nuovi, elaborando quindi il primo programma realmente moderno destinato ad un museo pubblico.

Nel secolo successivo il mutamento di vita sociale e civile e la nascita di una nuova economia proto-industriale, portano alla ribalta una nuova e potente borghesia che tende a codificare il proprio status anche attraverso una maggiore attenzione verso la cultura e, di conseguenza, verso il desiderio di possesso di manufatti artistici, che ancor più marcava il proprio prestigio. L’opera d’arte diveniva quindi un mezzo allettante d’investimento poco soggetto ad oscillazioni e al tempo stesso assecondava le personalissime passioni artistiche di ciascuno. Il mercato dell’arte del tempo, non più essenzialmente legata al nobilato e al clero, acquista, grazie anche a ciò, una linfa vitale nuova; i suoi operatori diventano consiglieri degli acquirenti ma anche veri e propri scopritori di talenti e spesso anche gli stessi artisti non disdegnano di ricoprire il ruolo di mercanti. S’incrementano o si formano in questo clima in Italia raccolte come quelle dei nobiluomini Giacomo Carrara a Bergamo e Teodoro Correr a Venezia, come quelle del giurista Gaetano Filangieri a Napoli o dell’imprenditore Federico Stibbert a Firenze, e molte altre, collezioni tutte destinate a convertirsi nel tempo in museo pubblico. Il collezionista in questo modo trasforma la propria passione non più e soltanto in un diletto autoreferenziale, ma in una forma di mecenatismo allargato e condivisibile. E’ questo ancor più evidente quando si formarono, ex novo nel primo Novecento, alcune delle più ricche collezioni statunitensi che intercettarono, grazie anche all’abilità indubbia di taluni mercanti come Joseph Duveen, Alessandro Contini Bonacossi o Wildenstein e di studiosi di grandissimo talento ad essi legati, come Bernard Berenson o Roberto Longhi e poi Federico Zeri, un numero immenso di capolavori dell’arte europea: non esiste oggi museo americano che non abbia visto il suo primo nucleo formato dalle donazioni, dai lasciti o dai prestiti di questi lungimiranti mecenati. Il grande paese d’oltreoceano, popolo di popoli, gli Stati Uniti d’America, è stato sempre molto più motivato, rispetto a quelli europei, a favorire un proficuo rapporto pubblico-privato in campo artistico, essendovi radicata la percezione che il museo non sia una struttura lontana e scissa dalla società, ma al contrario un bene comune, alla cui tutela chi può si sente di dover partecipare. Ciò non toglie che anche in Italia un manipolo d’indomiti appassionati si sia profuso a sfatare la convinzione che tra pubblico e privato vi sia contrapposizione, conferendo visibilità alle proprie collezioni e giungendo spesso a consentirne la fruizione pubblica: sono costoro che hanno saputo coniugare con intelligenza amore per l’arte e possesso; è grazie a loro che sempre più spesso ritornano in Italia opere d’arte che una diaspora scellerata ma inevitabile aveva nel tempo allontanato dal proprio territorio d’origine. Collezionisti come questi, pur senza voler sostituirsi allo Stato nelle funzioni che gli sono proprie, ne suppliscono con il loro fervido amore per l’arte le indubbie, e a tratti inevitabili, carenze della gestione pubblica, attuando un processo di tutela che tuttavia non sempre è recepito ed apprezzato come tale. Sono questi i collezionisti più illuminati che assegnano alle proprie raccolte un ruolo imperituro che non deve essere soggetto a dispersioni, sia che esse siano state formate seguendo uno schema preciso, come sotto l’impulso di passioni improvvise e di incontri casuali sul mercato o nella vita. A quest’ultima categoria apparteneva, ad esempio, Federico Zeri che non ebbe mai un disegno prestabilito riguardo la propria raccolta, ma le opere delle quali si circondava venivano acquisite, come da sua confessione, perché lo “incuriosivano, perché erano di livello qualitativo sufficientemente alto, perché il loro prezzo era modico”. Curioso è anche che lo stesso Zeri rifiutasse per sé l’appellativo di collezionista, sostenendo che gli oggetti d’arte che andava raccogliendo erano per lui semplicemente “una sorta di appendice ambientale, di arredamento” del mestiere di conoscitore e di storico dell’arte: “una sorta di diario personale” che lo riportava di volta in volta ad un capitolo preciso della propria esistenza. Questa percezione non gli impedì poi certo di progettare una destinazione museale di parte delle opere raccolte individuando nell’Accademia Carrara di Bergamo come nel Poldi Pezzoli di Milano, o nei Musei vaticani o nell’Universita’ di Bologna, gli enti “eredi” di parte dei suoi beni. Non è un caso che Federico Zeri fosse amico e consigliere, oltre che di molti altri, anche di Vittorio Cini il quale, tra i collezionisti del Novecento, fu tra i primi a conferire destinazione pubblica alla propria raccolta: quei gioielli che sono il Museo di Palazzo Cini e la Fondazione omonima all’Isola di San Giorgio Maggiore, con le sue biblioteche, i suoi istituti, con i quadri, gli arazzi, i mobili e gli oggetti con i quali Cini ha voluto arredare gli eleganti spazi palladiani, sono un esempio dei più illustri del più moderno mecenatismo italiano. Un mecenatismo che ha fatto numerosi proseliti, tra i quali basti citare le Fondazioni Magnani Rocca a Mamiano, nei dintorni di Parma o Accorsi a Torino, come molte altre, ma rientrano in questo spirito anche le donazioni che sono state fatte di recente da Maurizio Fagiolo dell’Arco e Lemme ad Ariccia o da Egidio Martini e Ferruccio Mestrovich a Venezia. I nomi citati appartengono a persone diversissime tra loro e in un certo senso esprimono tutte appieno le sfaccettature del collezionismo italiano degli ultimi decenni: Magnani era un intellettuale di estrazione alto borghese industriale, Accorsi era un antiquario, Fagiolo dell’Arco, uno dei più sensibili storici e critici d’arte della seconda metà del secolo scorso, Lemme un avvocato la cui conoscenza della giurisprudenza è pari a quella della pittura, specie romana; Mestrovich un restauratore di grande cultura artistica, così come Martini che nel corso della sua vita ha compilato alcuni dei repertori fondamentali per la conoscenza della pittura veneta. Ciascuno di questi nomi ne sottende altri, in numero considerevole, che hanno optato per una fruizione pubblica dei propri capolavori. Certamente il passaggio in blocco dalla casa al museo di alcune prestigiose collezioni, pur essendo encomiabile e comprensibilmente rispondente ad un legittimo sogno di “eternità”, ha un suo risvolto svantaggioso che si concretizza nella minore immissione sul mercato di opere di qualità altissima e questo affievolisce il formarsi di nuove grandi collezioni. Non possiamo negare che la figura del collezionista, selettivo od onnivoro, sia una razza in via d’estinzione, soprattutto in questi ultimi anni. Non credo sia solo un problema di offerta e di disponibilità economica, quanto piuttosto di una diversa attenzione all’opera d’arte. Le generazioni più recenti che acquistano manufatti artistici perseguono spesso più lo scopo di “arredare” che non quello di “collezionare” e tendono, per quanto riguarda la pittura, a rivolgersi più alla produzione contemporanea che a quella antica, senza calcolare con particolare attenzione i rischi che l’investimento in questo settore possa talvolta comportare. Spesso, certificazioni che potremmo generosamente definire affrettate o approssimative, mercanti, o meglio, faccendieri lestofanti, il canto delle sirene delle case d’asta, hanno svilito un settore dell’anima e dell’economia che non avrebbe mai meritato declino. Il mestiere del mercante di qualità è divenuto quindi ancor più difficile e deve percorrere una strada in salita. Un mio grande amico che questo lavoro lo conosceva bene, Ettore Viancini, diceva del suo che era il più bel mestiere del mondo; e spero che per alcuni sia ancora così. Ma non sarà facile e dovrà puntare sempre più sulla qualità, il rispetto per l’acquirente e il rispetto ideale per il creatore dell’opera commercializzata. Credo che, a dispetto di congiunture economiche e a mutazioni del gusto, l’istinto dell’uomo a collezionare poggi le sue radici su bisogni elementari, primo fra tutti quello di circondarsi di cose amate e quindi sia un fenomeno senza tempo che saprà resistere alle mode. Picasso affermava che quelli che fanno dell’arte un affare sono degli impostori. Tuttavia, se questa affermazione è legittima dal punto di vista ideale, non si può stigmatizzare con orrore una legittima pulsione all’investimento che talvolta può sottendere ad un acquisto d’arte. Quel che è importante, e che distingue il vero collezionista dallo speculatore, è la sana commistione – che non è contraddizione – tra passione e razionalità, tra sensibilità e istinto, allo scopo di rivolgersi sempre verso elementi di qualità. Il capolavoro di un artista minore o misconosciuto, infatti, è sempre un “investimento” migliore per la propria collezione piuttosto che un’opera malconcia, disarmonica e debole di un artista di fama. Una raccolta di opere top di petit-maitres può rendere grande una collezione , mentre una raccolta di mediocri esemplari di grandi nomi non raggiungerà mai tale scopo. Anche in questo senso il ruolo del mercante-consigliere può essere fondamentale. E la riprova sta nel fatto che spesso le collezioni personali dell’antiquario, come dello storico, sono fatte in parte di gioielli di tal fatta e non per difetto di disponibilità, ma più per istinto nei confronti della qualità. Un esempio. Sebastiano Ricci non si può certo annoverare tra i minori, ma piuttosto tra i grandi artisti, eppure l’episodio che cito è significativo, anche se quasi banale: verso la fine della sua vita, nel 1733, egli ottiene dai padri della Chiesa di San Rocco ben 600 ducati per ciascuna delle due pale che eseguì per loro. Per comprendere la proporzione: nel 1720 lui stesso ne aveva ottenuti 300 per la pala della chiesa dell’Angelo Custode di Venezia, e Gian Battista Tiepolo, nel 1743 e quindi già famoso, ne ottenne a fatica 354 per quella di San Giovanni Vescovo a Bergamo. Tuttavia, senza voler sminuire i miei amatissimi veneziani, Francesco Solimena, interpellato dagli stessi padri della Chiesa di San Rocco per due pale che sarebbero dovuto esser collocate specularmente a quelle del Ricci, presentò, per la prima soltanto, un conto di 1419 ducati. Una cifra smisurata, certamente. Ma i padri, obtorto collo, pagarono. Salvo poi decidere che, dati quei costi, una pala del Solimena era più che sufficiente e che, se un altare sarebbe rimasto vuoto, quello spazio lo poteva riempire un’opera del meno esoso Francesco Trevisani. Oggi, a poco di tre secoli di distanza, una pala del Solimena verrebbe pagata due volte e mezza una del Ricci?

Il mercato italianodelle opere d'arte

Non ci sono ricette per collezionista perfetto e quelli del passato che noi riteniamo tali, probabilmente ora considererebbero se stessi più perfettibili che perfetti. Nella scacchiera del mondo dell’arte, come scriveva Saarinen, egli non è una semplice pedina; su questa scacchiera i pezzi che si muovono sono vari: gli artisti, i mercanti, gli storici, i restauratori, i funzionari….; ma sta al collezionista l’ultima mossa e lo scacco matto è la conquista dell’oggetto voluto, piccolo o grande che sia. L’ideale sarebbe che tutti i pezzi della scacchiera giocassero dalla stessa parte o quantomeno con un analogo scopo, immettere sul mercato e conseguentemente trasferire nelle collezioni opere di – termine vago – gusto e qualità. “Collezioni d’arte”, come pare, si prefigge tale scopo; in tal modo promette certamente di contribuire a superare la congiuntura che ha portato il mercato italiano dell’arte a segnare il passo nei mesi passati.

De Chirico: il trovatore

Botticelli: La Venere

Tiepolo: Le tentazioni di Sant'Antonio

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